La teologia del Vaticano II pone in evidenza la peculiare realtà della Chiesa particolare che, nel suo rapporto con la Chiesa universale, è ben lontana sia dal costituire un semplice distretto locale di una più ampia unità organizzativa, sul modello delle suddivisioni amministrative degli stati unitari, sia dal rappresentare una soggettività distinta e, almeno parzialmente autonoma, rispetto a una sovranità sovralocale (sul modello degli stati federali o confederali). Secondo la felice formula di LG 23 (ripresa nel can. 368) le Chiese particolari sono quelle «in quibus et ex quibus unica et unica Ecclesia catholica existit». La Congregazione per la Dottrina della Fede, nella lettera Communionis notio al n. 13 declina le conseguenze di questo principio in riferimento al compito del Vescovo diocesano: «il Vescovo è principio e fondamento visibile dell'unità nella Chiesa particolare affidata al suo ministero pastorale, ma affinché ogni Chiesa particolare sia pienamente Chiesa, cioè presenza particolare della Chiesa universale con tutti i suoi elementi essenziali, quindi costituita a immagine della Chiesa universale, in essa dev'essere presente, come elemento proprio, la suprema autorità della Chiesa»
 
1 . Il principio su cui poggia questa affermazione, che prende le mosse dal valore dell’autorità del Vescovo diocesano, è quello dell’unità dell’episcopato, da cui l’asserita competenza dell’autorità suprema (il Romano Pontefice e il Collegio episcopale «una cum capite suo e numquam sine hoc capite»
2 ), anche in modo immediato, su ogni Chiesa particolare ma al contempo la responsabilità personale e propria del Vescovo diocesano, da esercitarsi certamente in unione al corpo episcopale stesso. In questo senso il Vescovo diocesano è titolare di una missione, propria e non delegata da altri, che si pone al servizio della comunione nella Chiesa particolare e comprende l’impegno a garantire la conformità della Chiesa particolare alla Chiesa universale, essendo la prima a immagine della seconda e non potendo darsi eccezione all’adeguato realizzarsi di tale rapporto. L’esercizio dell’autorità episcopale dovrà di conseguenza disporre di tutti i mezzi adeguati per dare seguito a questa missione e tra questi sono certamente da intendersi anche i provvedimenti sanzionatori e quelli più propriamente penali. Il presente studio si propone di approfondire quali siano tali mezzi sanzionatori, in vista di una loro valutazione critica, anche in ordine alla loro effettiva applicabilità e alla loro idoneità a tutelare la verità dell’identità propria della Chiesa e quindi di quella comunione che le appartiene in modo indispensabile. 1. I “seri errori” attribuiti ai Vescovi diocesani Nel considerare la situazione attuale in ordine alla competenza del Vescovo rispetto al ricorso agli strumenti sanzionatori, in senso più ampio e in senso propriamente penale, è impossibile prescindere dal rilevare una tendenza, acuitasi a partire dal dopo il Concilio Vaticano II, a evitare il ricorso ad azioni di natura coercitiva da parte del Vescovo diocesano. Questa ritrosia non deve essere confusa con il principio, già espresso dal Concilio di Trento (sessione XIII, de reformatione, cap. 1, cf can. 2214 §
2), per cui il Vescovo è chiamato ad essere innanzitutto pastore e quindi deve ricorrere a strumenti coercitivi solo in caso estremo e con atteggiamenti di mitezza e carità. Il non ricorso alle sanzioni e alle sanzioni penali in esame non deriva infatti da un eccesso di atteggiamento pastorale (con la non semplice questione dell’esatta definizione di tale espressione3 ) ma assume perlopiù la 1 CDF, Communionis notio, 28 maggio 1992, n. 13.
 
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